Sei e un minuto.
Manca un quarto d’ora alla sveglia. Un ora e quattordici minuti all’appuntamento
con l’elicottero.
Rimango rintanato nel mio sacco a pelo a mummia. Guardo
fuori da quel buco, da quella piccola finestrella raggrinzita che ho davanti al naso e
davanti agli occhi, l’aria è gelida. E’ buio ancora e anche il buio sembra indurito e impastato dal freddo. C’è silenzio fuori sul ghiacciaio e sulle pareti intorno, un silenzio
inquietante e fossile interrotto solo dai colpi di tosse di Johnny. Il mio cervello cerca subito di avviarsi e comincia contro la mia volontà a macinare
pensieri. Non ne ho voglia, ancora. Non voglio pensare, non adesso, non subito. Non voglio andare via. Non vorrei. Non è giusto. Ma non c'è nient'altro da fare, nessun'altra possibilità, nessuna. Chiudi gli occhi Emilio, dormi. Altri quindici minuti.
Dormi.
Sei e quattordici.
Ho dormito un quarto d’ora ma mi sembra di aver dormito una settimana o un mese o un anno. La
schiena è a pezzi, siamo in tre dentro alla tendina, con la roba e gli zaini e
tutto, ci stiamo stretti. Gli altri due, Giulia e Figenshau, dormono, o almeno
così mi pare. Ancora sessanta secondi e la sveglia suonerà. La pila frontale è al proprio
posto, pronta, qui nel mio sacco a pelo con le batterie e la radio. Al caldo. I guanti sono anche quelli al loro posto, anche loro al
caldo dentro al sacco a pelo. I miei vestiti in goretex da mettere addosso li
tengo come cuscino sopra allo zaino e sotto alla mia testa. Gli scafi degli
scarponi sono in fondo ai miei piedi, poi li prendo.
Trenta secondi e la sveglia suonerà, tengo l’orologio tra le mani, sono pronto. Nell’altra tenda Johnny tossisce ancora, ha tossito tutta notte, l'ho sentito.
Dieci secondi, apro gli occhi, guardo le pareti della tenda che sono rivestite di condensa bianca ghiacciata e luccicante aggrappata ai teli gialli, ora appena ci muoveremo ci si sbriciolerà tutto sulla testa e sui vestiti e sul collo. Che pena.
Tre secondi.
Due secondi. Un secondo.
Due secondi. Un secondo.
Beep-beep-beep.
Beep-beep-beep.
Stop. Premo il tasto stop dell’orologio.
Ripasso mentalmente
tutte le operazioni che dovrò fare. Gli altri non si sono mossi di un
millimetro. Allargo la finestrella che ho davanti al naso e tiro giù la zip del
sacco a pelo, voglio uscire dalla tenda per primo, subito. Tutto il calore
accumulato nella notte svanisce in pochi secondi, ho già freddo, freddissimo.
Mi metto i guanti. Accendo la frontale. Mi vesto, le giacche e i pantaloni di nylon fanno un rumore secco di plastica che soffre. Mi infilo gli scarponi, le
scarpette le ho già nei piedi. Esco dalla tenda con fatica e comincio a
prepararmi. Il cielo è blu stellato e non c’è un alito di vento. L’elicotterò
arriverà come stabilito, sicuro. Puntuale alle sette e un quarto.
Sei e trenta,
mancano ancora quarantacinque minuti all'arrivo dell'elicottero. Smonto la tenda, la ripiego nel suo
sacco, piego il materassino, lo infilo nello zaino, ho le mani gelate e per
scaldarmele me le infilo nelle mutande e mi prendo in mano i coglioni. Sto lì un attimo in piedi fermo
immobile con i coglioni in mano, guardo il nulla tra me e la parete di ghiaccio che ho davanti poi mi re-infilo i guanti e riprendo a
lavorare. Lascio la mia corda da sessanta metri a Giulia che
nel frattempo si è svegliata e vestita, e lei mi da
la sua corda da trenta metri da portare via. Non le servirà più, nemmeno il fornello, nemmeno quel set di pentole in più che ci eravamo portati. Carico tutta la mia roba dentro alla mia
duffle stagna e poi sulla pulka, Johnny è pronto, anche lui, è imbacuccato
dentro a due giacche di piumino indossate una sopra l’altra, ha lo sguardo fisso nel
vuoto. Tossisce e il suono dei suoi polmoni è quello che farebbe un bicchiere
di succo di frutta a soffiarci dentro con la cannuccia.
Johnny se ne sta lì in
piedi a guardarci mentre ci prepariamo e dondola come un filo d’erba al vento.
Gli chiedo come sta, mi dice Ok. Gli dico di avviarsi al passo, cinquecento metri più in là, dove ci verrà a
prendere l’elicottero e gli dico di non stare lì in piedi fermo, che fa troppo freddo.
Lui mi fa segno di sì con la testa, dice Ok e inizia a muoversi a passi
piccolissimi, al rallentatore. La neve è dura e scricchiola per il freddo sotto
i nostri piedi, uno scricchiolio fastidioso e metallico che solo a sentirlo fa
venire i brividi alle gengive. Non so quanti gradi ci saranno, credo almeno 25°
sotto, fa freddissimo, sento i peli del naso ghiacciati.
Le mie pelli di foca non stanno nemmeno attaccate, inutilizzabili le levo
da sotto le solette degli sci e me le infilo in qualche modo dentro alla giacca
a vento, tanto non servono più, cammino in mezza costa verso al passo facendo fatica, gli
altri sono già avanti, loro non hanno zaini da prendere con loro, solo la roba
di Johnny da far volare via.
Prima di sbucare dietro all’ultimo dosso e prima di arrivare
al passo mi volto ancora una volta con la testa verso il White Sails e verso quel canale che
avremmo dovuto salire e poi sciare tutti insieme, io con il telemark, posso vederne
solo un pezzetto, l’ultimo tratto prima della cima a 6446 metri. Poi rigiro per l’ultima volta la testa
verso la punta dai miei sci e riprendo a camminare, il White Sails non lo voglio più guardare. Farò
finta di non averlo mai visto. Arrivo al passo, dove ci sono gli altri che mi
aspettano, stanno tutti in piedi in silenzio tranne Johnny che è seduto in mezzo agli altri e continua a tossire. Mi levo gli sci, li unisco e li fisso tra loro con
un lacciolo elastico, preparo la nostra roba per il pick-up, manca meno di un quarto d’ora.
Non sento più le punte dei piedi ma che importa, tra quindici minuti sarò
sull’elicottero. Tra quaranta alla base degli elicotteri, a Manali. Tra un ora,
molto probabilmente nello studio di un medico indiano con Johnny in mutande che si fa visitare e tra un ora e
mezza sotto una doccia calda in hotel. Vaffanculo anche le punte dei piedi, non
mi importa se ora non le sento più. Non mi interessa.
Sette e dieci minuti. Al passo è arrivato il sole, fa soltanto un po’ meno freddo di prima. Siamo tutti in
piedi in silenzio, abbiamo già scavato la piazzola per l’elicottero in questa
neve ventata e spigolosa e dura. Tutti vogliamo che questa cosa penosa di farci poratre via con l’elicottero finisca in fretta. Lo vogliamo io e Johnny, la nostra
spedizione sta per finire. Lo vogliono Giulia e Hilaree e Figenshau e Anjin e Jay,
la loro spedizione entrerà nel vivo adesso, anche senza di noi.
Sette e dodici minuti,
nell’aria si sente da lontano il suono secco delle pale dell’elicottero. Come
ci avevano detto, Domani mattina sette e quindici al passo, puntuali. Sono puntualissimi. Io e Hilaree ci abbracciamo ancora una volta. Poi abbraccio
Giulia. Poi Figenshau. Poi una stretta di mano agli altri. Hilaree mi chiede se secondo me potrò
tornare indietro da loro e riprendere la spedizione, le rispondo che onestamente
non credo che sarà possibile e le dico una cosa che non vorrebbe sentirsi dire ma che anche lei sa benissimo. Credo che la mia spedizione finisca qui e che sia oggettivamente impossibile per me, dopo avere accompagnato Johnny in ospedale e averlo seguito per qualche giorno nella sua fase di recupero, ritornare di nuovo sulla montagna, per via dei costi, per via dei tempi e per una infinità di altre ragioni che tutti sappiamo. Hilaree fa segno di sì con la testa, lo sappiamo tutti che la
mia spedizione sta per finire, non solo quella di Johnny. Ci abbracciamo in silenzio.
Le dico Fatevi sentire.
Sette e quindici,
l’elicottero atterra, apriamo il portellone, Johnny sale a bordo, noi
carichiamo la nostra roba, gli zaini, le sacche, le pulke, gli sci, poi anche
io salgo a bordo, mi allaccio la cintura di sicurezza mentre gli altri
finiscono di caricare. Guardo fuori, Giulia e Figenshau e Hilaree e tutti gli
altri sono solo delle ombre nel pulviscolo di neve che si solleva intorno.
Sollevo la mano per salutarli. Poi guardo Bruno, il pilota, si è voltato con la
testa verso di me e mi fa un sorriso e il segno di ok con il pollice, anche io
faccio ok con il pollice, Ok.
Bruno chiede a Johnny se vuole dell’ossigeno
dalla bombola da respirare e lui dice No, I’m ok. Il portellone si chiude.
Bruno prova a decollare, siamo al limite del carico a 5400 metri, Bruno decolla,
lentamente, ruotiamo intorno a noi stessi nell’aria e poi finalmente voliamo via.
Sette e ventinove,
siamo in volo a 6000 metri davanti all’Indrasan, è una montagna bellissima, una
cattedrale di ghiaccio e di neve e di roccia, delle creste affilate e barocche,
voliamo così vicini che quelle meringhe di neve sembra di poterle toccare. Con
l’elicottero entriamo nel cono d’ombra della parete ovest che scorre fuori dai
finestrini a meno di cinquanta metri da noi. Galleggiamo nell’aria sopra a
ghiacciai e pareti e pendii di neve che in pochi conoscono e che quasi nessuno
frequenta. Il tempo, per una trentina di secondi, sembra essersi fermato. Il mondo è riassunto qui, adesso, nell'ombra e nel ghiaccio di questa parete. Poi
usciamo nuovamente in piena luce sopra bacini glaciali e ampi ghiacciai e riprendiamo a volare in direzione Manali. Mi volto verso Johnny che siede alla mia destra e gli chiedo come va e lui mi
dice Ok. Better, now.
Sette e quarantanove,
siamo nel piazzale degli elicotteri a Manali, mi sembra così pianeggiante e largo e artificiale in un mondo fatto di pendii
inclinati, di dirupi e di pareti. La turbina è spenta e le pale dell’elicottero
hanno appena smesso di girare, l’albergo è a pochi metri da noi, tutto adesso sembra
così a portata di mano. Siamo a duemila metri, intorno a noi è tutto verde, i
prati sono verdi e le foglie degli alberi sono verdi, il cielo è azzurro, le nuvole sono morbide e
burrose. E’ primavera, ormai.
E’ caldo, ci sono venticinque gradi, sto sudando. Johhny ha già
un’altra faccia, sicuramente ora che si è abbassato di quota sta meglio, gli
chiedo se vuole andare direttamente in ospedale per farsi visitare o cosa vuole
fare. So già cosa gli diranno in ospedale: che il suo è l’inizio di un edema
polmonare, che ha fatto bene ad abbassarsi di quota, che deve continuare con il Diamox
e gli altri farmaci che gli abbiamo dato noi già da ieri sera, che deve riposare, evitare gli sforzi e evitare di respirare il pulviscolo della strada. Dovrà stare
tranquillo, adesso è a rischio infezioni e a rischio polmonite. Probabilmente lo sa perfettamente anche lui cosa gli diranno in ospedale, Johnny, sa
che essersi abbassato di quota era la cosa principale e più urgente da fare,
per questo mi chiede se prima di andare in ospedale può andare in camera in
hotel, farsi una doccia e rimanere lì tranquillo a riposare per un po’. Ok, dico io, in
ospedale ci andremo dopo.
Sette e cinquantacinque,
sto aprendo con la chiave la stanza d’albergo dove sistemerò Johnny, ho preso due camere, così lui può
stare tranquillo, e anche io. Lo faccio entrare, porto la sua roba dentro la
stanza e gli dico di riposarsi un po’e di farsi una doccia calda e poi di
chiamarmi quando vuole che lo porti in ospedale. Mi fa un sorriso e mi dice Thank you
Emilio, I've appreciated io dico Ok, no problem, poi esco dalla sua stanza. Gli sorrido.
Sette e cinquantasette,
entro nella mia stanza d’hotel, tiro dentro la mia roba strisciandola sul
pavimento, il mio zaino, gli sci e la mia sacca, le mie cose. Metto la tenda il sacco a
pelo le pelli di foca e tutte le mia roba bagnata e puzzolente sul balcone ad
asciugare. Mi spoglio e metto i miei vestiti in goretex sul davanzale del
balcone. Rimango completamente nudo, sento il fresco delle piastrelle sotto le piante dei piedi, il sangue ha ripreso a circolare nelle mie dita che adesso sono rosse e gonfie e che sembrano scoppiare. Cammino in tondo per la stanza come un cane in gabbia e sento
l’aria tiepida scivolarmi sulla pelle sudata. Vado in bagno e mi vedo dentro al grande
specchio che c’è sopra il lavandino. Ho i capelli unti e sporchi, la barba
lunga. Sono magro, la faccia è nera bruciata dal sole. Non c’è nessuna possibilità per me di tornare sulla montagna insieme
agli altri per sciare. La mia spedizione finisce qui.
E adesso, cazzo faccio io qui?
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