mercoledì 17 dicembre 2014

SCIARE SOTTO AL NANGA PARBAT.

La spedizione era finita e avevamo cominciato il viaggio di ritorno. Quando le spedizioni finiscono c'è una voglia pazzesca i ritornare a casa, ti assale una specie di frenesia, una accelerazione del desiderio di essere a casa propria, con le persone care, che è difficile da controllare. Alla mattina avevamo smontato le tende e preparato tutto, i portatori avevano suddiviso i carichi e caricato i muli e avevamo iniziato la discesa dal campo base del Nanga Parbat verso Rupal, che è il primo piccolo villaggio a qualche ora di cammino. Alla euforia mia e di Simone e di David mi sembrava che corrispondesse una malinconia dei ragazzi pakistani che erano stati con noi. Sapevano che difficilmente ci saremmo rivisti. 

Di tanto in tanto durante la spedizione qualche ragazzo saliva dal villaggio per portare qualcosa, dei rifornimenti, qualche ortaggio o per avere qualche medicinale dei nostri per curare la tosse o l'influenza o semplicemente per farci visita. Un giorno uno di loro, Jamil, era salito con un paio di vecchi sci da fondo per sciare con me. Avevamo speso il pomeriggio a parlare e a girare in tondo su un anello improvvisato sul grande piano di Lattaboo, dove stava il nostro campo. Jamil mi aveva spiegato che quegli sci appartenevano a suo fratello che faceva parte delle troupe speciali dell'esercito pakistano, se li era fatti prestare ed era salito appositamente per sciare con me. Era stato un bel giorno. 

Quando iniziammo il cammino di discesa per andare via, dopo le foto di rito con i polacchi che sarebbero rimasti un altro po' per recuperare i loro materiali sparsi sulla montagna, mi accorsi che un gran numero di bambini erano saliti con i genitori o con i fratelli o con gli zii per aiutare nel trasporto a valle dei nostri materiali. Questi bambini mi giravano intorno, curiosi, facendomi tutti la stessa domanda. Gli sci? Dove sono i tuoi sci? Non li vedevano. Dissi che erano nella sacca lunga, quella azzurra e che da qualche parte c'erano gli scarponi, i bastoncini li avevo in mano, li avrei usati per camminare in discesa. Non capivo bene tutto questo interesse dei bambini per i miei sci ma poi, mentre camminavo verso valle mi resi conto che nella desolazione e nella normalità di un luogo come quello, dove l'unica attrattiva fuori dall'ordinario è rappresentata da qualche alpinista occidentale o trekker che può capitare di vedere durante l'estate, io rappresentavo una eccezione. Una specie di alpinista Superman. Io per quei bambini ero uno sciatore, quello che aveva sciato sul Nanga Parbat, non un normale alpinista. Era diverso. Per loro era di più. 

Sul sentiero di ritorno davanti a me e dietro a un mulo che ci precedeva un ragazzino che avrà avuto sui quindici anni camminava con uno zainetto sulle spalle e nelle mani teneva due delle cose più scomode che la mia mente possa immaginare da maneggiare e trasportare: una thermos arancione da cinque litri (vuota) e un grosso rotolo di gommapiuma espansa, quella che avevamo usato come isolante sul pavimento della nostra tenda casa. Era un cilindro altro due metri e del diametro di una cinquantina di centimetri tenuto insieme da uno spago, era leggerissimo ma ingombrante e scomodo da maneggiare. Il ragazzino aveva ai piedi un paio di stivali di gomma e procedeva senza lamentarsi con un passo che alternava continuamente tra veloce e lentissimo. Riconobbi lo zainetto che teneva in spalla che era quello che conteneva il computer di Simone, non era né ingombrante né pesante, ma molto delicato, gli era stato affidato per averne particolare cura. A un certo punto, prima di un tratto in salita, dissi a quel ragazzino di darmi o la thermos o il rotolone di gomma piuma, che lo avrei aiutato trasportandolo io. Mi disse di no e si guardò in giro nella speranza che nessuno dei grandi ci avesse sentito. Insistetti un po' perché non mi andava di vedere un ragazzino che poteva avere l'età di mio figlio camminare così scomodo, non erano carichi pesanti, ma erano scomodi da trasportare. Lui non volle. 

Dopo un po' mentre la nostra carovana procedeva e camminavamo mi si avvicinò un uomo che era uno zio del ragazzo, non parlava inglese, ma mi fece un gesto con gli occhi per riferirsi al nipote e uno con la mano che avrebbe potuto sembrare "piano", mimava quel gesto con la mano di rallentare, ma che capii che invece si riferiva al ragazzino davanti a noi e che significava "ci vuole pazienza, tu stai tranquillo, non preoccuparti. Lascialo fare." Con i gesti, con lo sguardo e con un unica parola inglese mi fece capire che in tutto questo, nella scelta di assegnare a quel ragazzo quel carico, al tempo stesso leggero e molto scomodo da trasportare, c'era un progetto educativo ben preciso. L'uomo, che avrà avuto la mia età ma che sembrava molto più vecchio mi disse: "learning". Imparare. La parola gli usci a fatica dalla bocca facendosi spazio tra dei denti radi e bianchissimi. Capii perfettamente e annuii. Il ragazzo stava imparando, e così tutti gli altri.

Scendemmo ancora, nevicava intanto, Simone e David scesero a valle quasi di corsa, io restai indietro con i portatori a fare qualche foto e a filmare. Quando fummo a Rupal, dopo qualche ora, individuai nel centro del villaggio la casa di Aquil, ci eravamo già passati a dicembre, in salita, ma ora c'era molta più neve. Fuori di casa su un filo c'era qualche panno steso, tutto intorno a delimitare quelli che d'estate devono essere orti c'erano delle staccionate fatte di rametti secchi e sottili che si sfrangiavano puntando verso l'alto. Una vivace colonna di fumo saliva dal comignolo della casa di Aquil, nella quale era stato preparato un pranzo speciale per noi, mentre nelle altre case vicine, dai comignoli, usciva solo un leggerissimo alito di fumo. Faceva un freddo cane, ma era molto meno freddo che a Lattaboo. Arrivai fuori dalla casa di Aquil e c'erano tutti i bambini del paese ad aspettarmi, in piedi con le mani in tasca. Mi guardavano. 

Uno di loro, il più grande, aveva un paio di sci Dynastar ai piedi recuperati chissà dove e un paio di scarponi Nordica a calzata posteriore. I bambini mi chiesero ancora una volta tutti insieme dove erano i miei sci perché volevano che io sciassi con loro, solo che a quel punto la mia sacca con gli sci e gli scarponi doveva aver proseguito verso valle in groppa a un mulo. La delusione fu grande e capii che non potevo cavarmela così. I bambini mi aspettavano da due mesi e mezzo e mi guardavano e si aspettavano qualcosa di speciale da me, così invece che entrare a mangiare dove gli altri mi aspettavano, dissi: "Let's go skiing". Ci fu un immediato animarsi del gruppo e un vociare in una lingua a me incomprensibile e tutti corsero in discesa verso il campetto di neve che c'era appena più in basso. Il ragazzo grande con gli sci prese i bastoncini e iniziò a spingersi e a scendere, pattinando verso valle. In fondo al pendio fece una curva verso sinistra e poi risalì di corsa e fece un altro giro e poi un altro e un altro. I bambini mi guardavano, come per sapere se avevo un giudizio da dare sullo stile e sulla tecnica del loro amico e io dissi: "Very good" facendo vedere il mio pollice alzato. Dissi anche "Champion" e tutti scoppiarono a ridere e applaudirono. 

I bambini più piccoli a turno salivano in groppa al ragazzo con gli sci, lui se li caricava a cavalcioni uno alla volta e li portava in discesa. Non avevo mai pensato, in vita mia, che lo sci potesse essere uno sport di squadra. In Pakistan, lo è. 

Restai lì fuori a giocare e ad applaudire a mia volta queste evoluzioni sugli sci, intanto dalla casa di Aquil ogni qualche minuto lui stesso o un adulto usciva a chiamarmi e a dirmi di entrare a mangiare. "Please, come in. Lunch is ready". I bambini ogni volta mi fissavano in silenzio, per capire se io stavo per andarmene e per lasciarli lì o se sarei restato con loro ancora un po' a sciare, e ogni volta che io rimandavo il momento del pranzo loro si gasavano e caricavano di entusiasmo e di gioia e riprendevano ad andare su e giù dal pendio stando in groppa al più grande di loro. 

Penso che quello sia stato uno dei giorni di sci più belli della mia vita e non è stato per merito della neve o degli sci o del pendio o del Nanga Parbat che avevamo appena sopra, nascosto nella nebbia. 

E' stato per via di quei bambini pakistani. 

Qui c'è un video di quel giorno.

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